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Quando si andava per osterie

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FriuliVenezia Giulia - Pordenone

Osterie, luoghi del passato che ancor oggi evocano ricordi di tempi perduti, di arcaici stili di vita, di
piaceri semplici ma intensi, perciò fondamentali, irripetibili, irrinunciabili.
Luoghi con il fascino di un mistero immaginato nei dialoghi che, anche per merito della luce fioca d’un  lampione, di un’esigua lampadina o del baluginare della fiamma sul grande focolare, davano 
suggestione di mistero o di complotto carbonaro anche al colorito ma innocuo argomentare della
gente semplice.
Modesta, gustosa, lontana da raffinati sapori e da salse complicate era la cucina delle osterie. Da 
secoli, il popolo, in genere sobrio, ma gaio, vivace e socievole, rimase fedele alle sue tradizioni 
culinarie che trovano il loro coronamento naturale in quelle riunioni tra pochi amici intorno a un tavolo di 
legno grezzo e di sedie impagliate, con la misura da litro o da mezzo litro per celebrare la fine di una 
giornata di lavoro e disputare insieme una "partita" a carte, a dama o a morra.
Di regola, il campionario dei piatti era assai limitato e, soprattutto, nessuna osteria si arrischiava di 
apportare modifiche notevoli alle ricette che erano sempre le stesse, negli ingredienti e nei metodi di 
preparazione e cottura.
Nessun oste si é mai curato del contenuto di colesterolo del suo "muset co’ la brovada", ma si è 
sempre preoccupato che i suoi avventori trovassero il suo piatto squisito e altamente stimolante, sia 
all’odorato (che era la più efficace forma di réclame in uso), sia al palato durante il pasto. Ed egli era 
ben attento che nell’impasto del cotechino vi fosse abbondanza di gelatine piuttosto che di carni, di 
modo che l’appiciccaticcio del musetto fosse controbilanciato dall’asprigno della brovada in un 
contrasto di sapori che rende questo piatto, di una semplicità disarmante, uno dei capolavori assoluti 
della gastronomia friulana.
Allo stesso modo, l’oste stava attento all’ortodossia di tutti gli altri piatti: dallo spezzatino alla pasta e 
fagioli, dagli gnocchi col sugo d’anatra alle trippe, dalle frittate con le erbe fino alle raffinatezze del 
baccalà preparato nelle varianti accettate e ammesse dalla rigorosa tradizione.
Il menù, composto da pochi piatti, veniva distribuito con un certo criterio nell’arco della settimana, 
dando, il piu delle volte, un’attenzione particolare ad alcune pietanze che finivano per caratterizzare un 
giorno specifico: martedì bollito, giovedì gnocchi, venerdì baccalà, sabato trippe. Poi altri piatti come lo
spezzatino, la pasta e fagioli, risi e bisi, frittate d’erbe varie, il musetto con la brovada venivano 
preparati con una certa casualità, in relazione al gradimento della clientela e alla disponibilità delle 
vivande.
Se tra i piatti elencati si dovesse stabilire una gerarchia, questa risentirebbe, per forza di cose, 
dall’abilità del cuoco e dalla sua sensibilità più o meno spiccata per ciascuna pietanza. Ma, credo di 
non sbagliare di molto, se nomino "sul campo", il baccala e la trippa Re e Regina della gastronomia 
delle osterie nostrane.
Ma se questi nominati erano i piatti del mezzogiorno e della sera, le osterie offrivano ai loro avventori 
un sacco di altri spuntini freddi da accompagnare all’ombretta o al quartino che venivano consumati in 
piedi, al banco, con gli amici: salumi d’ogni tipo, meglio se di casa, uova sode tagliate a metà e 
condite, acciughe e tante altre piccole e semplici golosità che avevano il duplice scopo di attenuare gli 
effetti del vino bevuto fuori dai pasti ... e di stimolare la sete per ulteriori ombrette.
Quando la serata volgeva al termine e all’approssimarsi dell’ora della chiusura, erano rimasti 
nell’osteria solo i pochi fedelissimi, l’oste abbandonava il suo bancone e portava sul tavolo dei 
giocatori di carte l’omaggio della grappa su dei bicchierini, piccoli ma panciuti e riempiti fino all’orlo. ll
brindisi collettivo incoraggiava poi l’ordinazione finale delle "ombre" o dell’amaro a cui s’attribuiva il 
potere magico di rimettere a posto il disordine gastrointestinale provocato dalle mangiate e dalle 
bevute.
La nostra provincia, specialmente nell’arco pedemontano che va da Caneva a Spilimbergo e nelle 
nostre vallate ricca di tradizioni alberghiere e ristoratorie che hanno favorito il sorgere e l’affermarsi, in 
loco e nel contermine Veneto, di osterie ricche di giusta rinomanza. Di regola, il giovane figlio d’un 
oste, pieno di buona volontà, partiva per Treviso o Venezia a cercarsi un lavoro magari solo da 
sguattero e poi, quando aveva ben appreso i segreti del mestiere, tentava il grande passo di mettersi 
in proprio.
Una volta che si erano affermati, questi chiamavano al loro fianco parenti ed amici i quali, a loro volta, 
aprivano o rilevavano altre osterie, caffetterie, ristoranti o locande.
Storie di ordinaria emigrazione, si dirà, che fanno il paio con quelle parallele delle giovani ragazze 
friulane che andavano a servizio nelle case patrizie o borghesi per racimolare i soldi della loro dote, 
modesta ma sofferta.